27/05/10

THE LAST POETS


The Last poets sono, a detta di molti, i veri padri del rap.

Negli anni 70 la loro poesia - così infuocata e magicamente ritmica- è stata la colonna sonora della lotta afro americana per i diritti civili, in un'epoca in cui il Ku Klux Klan seminava terrore e le Black Panthers -giustamente!- reagivano. Certo che reagivano, e non solo con le pistole: perchè anche le parole, si sa, possono essere ben più potenti e devastanti di un proiettile.

Al secolo David Nelson, Gylan Kain, e Abiodun Oyewole (in seguito si aggiungeranno altri 7 membri), i primi Last Poets nascevano a New York nel 1970 - appena due anni dopo la morte di Martin Luther King- in un contesto sociale alquanto turbolento che generava -si sa- una fervida produzione controculturale . Più che una band tradizionale, questi tre “negri”erano giusto poeti di ispirazione afrocentrica (come tanti in quel periodo) che, accompagnati da un tamburo, raccontavano storie di vita urbana, di rabbia e di reazione all’ingiustizia con il pathos del be bop e l’energia esplosiva del primo funk.

Oggi, 35 anni dopo, i critici e i deejay ne parlano come di una delle formazioni afro americane più incisive e "politicamente scomode" di sempre… perchè nei loro discorsi questi poeti maledetti del ventunesimo secolo usavano toni ben più duri, ad esempio, di Marvin Gaye o Gil Scott Heron: i Poets erano davvero radicali, potremmo dire estremi, comunque fedeli a un'ideologia "guerriera" che faceva della loro musica un forte strumento di militanza politica. Il loro linguaggio era schietto ma molto profondo, coniugava la forza dirompente di un pugno nello stomaco al calore sensuale di un bacio con la lingua. La rabbia della negritudine frustrata si mescolava alla dolcezza, alla poesia che canta l'amore, al jazz più raffinato, sofisticato e psichedelico.

Proprio il jazz è infatti la principale componente di quel sound così marcatamente new yorkese che risentiva degli echi di Spanish Harlem e del roots jamaicano, del beat di Fela Kuti e dell'energia di Miles Davis, John Coltrane, e Pharoah Sanders (dall’incontro col quale venne fuori il loro brano cult: “This is Madness”). Ma anche di influenze più hi tech come quelle di Bill Laswell, che negli anni 80 pubblicò diverse loro incisioni per la sua Celluloid Records.

I loro versi e melodie ipnotiche riportavano l'Afrika al centro di tutto, ma più che essere un mero richiamo alla terra madre erano un marcato strumento di azione politica, teso a forgiare le coscienze delle comunità suburbane di colore a proposito della discriminazione razziale e dell’esigenza di reagire, di ribellarsi: non limitandosi a criticare lo status quo creato dai bianchi (vedi album come "White Man's Got a God Complex"), ma anche usando parole dure verso i proprio stessi fratelli, spronandoli a svegliarsi dal loro torpore ed accusandoli di una certa apatia che li rendeva facili prede dell'oppressione ("Niggas Are Scared of Revolution").

Erano dischi sovversivi, i loro, tant'è che dopo la pubblicazione di "This Is Madness"(era il 1971) finirono sotto l'occhio vigile dei serivizi segreti del presidente Nixon. In taluni stati erano ancora in vigore le leggi razziali, si usciva dal Vietnam, e l'eroina iniziava ad esser diffusa nei ghetti al fine di distogliere l'attenzione dei giovani di colore dalla tanta merda che quei governi continuavano a buttar loro addosso, giorno dopo giorno. I Poets denunciavano, criticavano, e a loro modo reagivano! In quanto artisti avevano il compito –sacro, come d'altronde è quello di tutti gli artisti!- di fare controcultura e controinformazione, di risvegliare le coscienze della comunità e di aiutarla a non farsi fottere dal potere... come fecero più avanti i Public Enemy.

Eppure, alla fine, anche loro si sono fatti fottere. Perchè contro il Ku KLux Klan qualche volta all'arte hanno preferito la violenza; perchè qualcuno di loro è cascato nel crack; perchè, ahimè, hanno anche finito per prendersi a coltellate nella gola. Ma non sta certo a noi giudicare o sparare sentenze sulle loro vicende umane, meglio tenerli nel cuore per la loro musica, per la loro creatività, ma sopratutto per il loro messaggio che, pur talvolta violento e paradossalmente omofobico (poi dipende da come lo si interpreta), portava avanti la nobile causa della pari dignità di tutti gli individui.

This is Madness!


Fabio Barocco


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