06/02/15

NUOVO SITO BLACK VIBRATIONS!



E' online il nuovo sito "Black Vibrations" all'indirizzo www.blackvibrations.com
Potrete essere sempre aggiornati sulle date dei nostri dj set, i vari reportage fotografici e naturalmente tanta buona musica da ascoltare!
Il presente blog, con tutti i contenuti e testi, rimarrà online e cercheremo di aggiornarlo con nuovi articoli che parlano degli artisti che più ci piacciono.

Continuate a seguirci!
Black Vibrations staff.

www.blackvibrations.com
blackvibrations@hotmail.com
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09/12/13

DEE DEE, BARRY AND THE MOVEMENTS


Nella Svizzera di fine anni ’60 il cantante Barry Window, figlio di un batterista sudafricano, viene a sapere che a Basilea c’è una nuova cantante di colore che ha una verve vocale molto interessante e soul e, con l’hammondista/flautista Joel Vandroogenbroeck, parte alla ricerca di Dee Dee McNeil.
L’incontro avviene al Chemi Hutte dove la McNeil si esibiva in concerti rock.
Window e Vanderoogenbroeck restarono in silenzio rendendosi conto che le voci che erano giunte sino a loro su quella cantante dall’aspetto gentile e delicato erano vere. Dee Dee si era trasferita dagli States da poco e lentamente s’integrava nella cultura e nella società svizzera.
L’Europa di quegli anni accoglieva ogni stimolo proveniente dagli USA senza alcun scetticismo, una forma di gratitudine socio culturale verso l’impresa di “liberazione” compiuta dagli alleati durante la seconda guerra mondiale, e il migliori mezzi di trasmissione erano rappresentati da cinema e musica. L’influsso degli USA nella scena europea si ritrova in quei tentativi di imitazione dei prodotti culturali americani presenti in ogni territorio del vecchio continente. Ovvio che venuto a conoscenza della presenza di una cantante americana qualunque musicista avrebbe fatto il tentativo di coinvolgerla in un progetto ritenuto “interessante”. Sia Barry che Joel, del resto, erano appassionati di quella straordinaria musica che arrivava da oltreoceano e rimasero sorpresi dal sentire cantare Dee Dee.
I tre si sedettero a tavolino e iniziarono uno scambio di storie reciproche coinvolgenti e l’idea di mescolare musicalmente le esperienze di ciascuno fu di facile presa, fu così che il trio iniziò a lavorare per metter su i Movements con l’idea di sviluppare le capacità soul delle voci di Dee Dee e Barry.
Il progetto fu messo su in poco tempo e ai tre si unirono Barney Wilen (sassofonista franco-americano che vantava nel suo curriculum collaborazioni con Miles Davis, Art Blakey and The Jazz Messengers e altri, oltre a diversi dischi jazz molto ben venduti in Germania), Ronald Bryer (chitarrista inglese e grande appassionato dei Beatles), Peter Giske (bassista rock alla ricerca di uno stile soul…) e Wolfgang Papp (batterista che non aveva mai suonato ne preso lezioni sino ad allora ma che dimostrò di essere in possesso di un sound black poderoso e vitale).
Su questa miscela musicale le doppie voci di Dee Dee e Barry si presentavano alla grande arricchendosi di nuovi timbri e il prodotto fu un disco uscito nel 1968 - Soul Hour – per l’etichetta tedesca MPS e firmato Dee Dee, Barry and The Movements.
Il disco, di stretta matrice soul jazz, è una bomba che si sviluppa in 8 tracce, 7 cover e 1 pezzo originale, in cui i duetti vocali tra Dee Dee e Barry sono gustosissimi e si alternano a parti solistiche strumentali contornate da un uso armonioso del flauto, dell’hammond aggressivo e graffiante al punto giusto e dalla batteria cruda e dura. Si parte on Get Out My Life Woman cover ben riuscita della celebre versione di Lee Dorsey, poi Summertime (maestosa), Soul Time (scritta da Joel Vanderoogenbroeck), Funky – Funky Broadway (ripresa e rivisitata dal pezzo di Dyke and The Blazers), Midnight Our (di Wilson Pickett, grande passione di Dee Dee), It’s Allright (di Ray Charles, altra grande passione di Dee Dee), Willow Weep For Me (versione di Alan Price e ripresa, poi, da Wes Montgomery) e, in ultimo, la strepitosa Hold On, I’m Coming che non ha bisogno di presentazioni.
Il gruppo si sciolse subito dopo per ragioni che non sappiamo e il disco, unico straordinario prodotto, non raggiunse alte posizioni nelle classifiche dell’epoca.

Oggi è molto ricercato dai collezionisti e la sua quotazione si aggira attorno ai 170 euro e non è facile da trovare nella sua versione originale. Sono di facile reperibilità le ristampe messe in circolazione dalla Sonorama, sia in cd che in vinile, nel 2011.

Qualche parola sul destino dei componenti della band: la carriera di cantante di Dee Dee McNeil si fermò ad un secondo disco in versione solista, Rappin Black In A Withe World (1971, ma ha avuto un buon successo con i testi e gli arrangiamenti prodotti per molti artisti tra i quali anche Nancy Wilson e Watts Prophets. Barry Window si fermò ad un album solista nello stesso anno di Soul Hour. Ronald Bryer ha collaborato all’album solista di Window e ad altre produzioni sino alla sua morte avvenuta nel 1973. Peter Giske e Wolfgang Papp hanno continuato a suonare alternando percorsi jazz a momenti rock, senza grandissimo risultati. Barney Wilen e Joel Vandroogenbroeck hanno avuto un buon successo producendo anche dischi di ottima fattura. 

Buona musica.
Vincenzo Altini



30/10/13

NICA'S DREAM





Round Midnight e il sogno di Nica.

Buonasera a tutti, io sono Nica e questa sera saremo con voi direttamente dal Five Spot Café ed ascolterete la bella musica del Thelonius Monk Quartet, con Charlie Rouse al sassofono, Roy Haynes alla batteria e Ahmed Abdul – Malik al basso…”. Poi una pausa e le prime note di Pannonica che superano il rumore di fondo dell’ambiente, un attimo di silenzio e la voce di Monk: “ …Ciao a tutti, io sono Thelonius Monk. Mi piacerebbe suonare un pezzo composto non molto tempo fa, dedicato a questa bella signora qui. Credo che suo padre le diede quel nome dopo aver visto una farfalla che cercò di catturare. Non credo che abbia mai preso quella farfalla, ma ecco la canzone che ho composto per lei”.

Fermiamoci un attimo e cerchiamo di capire dove siamo e con chi, perché questa non è parte di un archivio ufficiale ma un nastro registrato per gioco e ritrovato molti anni dopo.
La realtà, però, ci dice chi erano i protagonisti – anzi, LA PROTAGONISTA – di questa storia fatta di amore, di incontri e di musica. Questa storia è semplicissima con un pezzo che fa da sottofondo che vorrei che ascoltaste in loop durante la lettura, perché mentre lo scribacchino da questa parte del pc batte le sue dita sulla tastiera, le note di Round Midnight sono nettamente in sottofondo e i polpastrelli fanno su e giù immaginandosi Monk sui tasti del pianoforte (ndr: effetto allucinogeno della musica…). Round Midnight è uno degli standard jazz più noti ed eseguiti e, secondo molti, anche uno dei più difficili in assoluto sia per la bellezza espressiva del tema che per l’insolito giro armonico ed in ogni esecuzione colpisce e tocca l’animo degli ascoltatori.
Di Round Midnight si può dire semplicemente che fa parte del patrimonio di ogni musicista jazz e l’elenco delle incisioni sarebbe solo indicativo e non esaustivo.
Ma perché ci occupiamo di Round Midnight?
Semplice… la protagonista di questa storia è la musica, come in molte altre, però con una chiave di lettura differente e molto intimistica. Nel 1948 la Baronessa Kathleen Ann Pannonica de Konninswater (nata Rotshield) ascoltò la registrazione originale di Round Midnight, poco prima di partire per tornare a casa da un viaggio a New York, e rimase folgorata. Chiese al suo amico di far suonare ancora il disco, ancora ed ancora ed ancora, ed alla fine non partì più. Rimase a New York ed iniziò a girare per tutti i posti in cui c’era musica, cercando quel pianista straordinario. Nel giro di pochissimo tempo divenne parte integrante della comunità jazz.
Nella New York di quegli anni i club erano piccoli e ospitavano la stessa clientela notte dopo notte. Questi posti erano frequentati da gente come Jack Kerouac, William Borroughs, Allen Ginsberg, Frank Sella e sul palco c’erano i vari Parker, Gillespie, Coltrane, Holiday e Davis ma non Monk. Thelonius era stato arrestato per possesso di eroina nel 1951 e gli era stata tolta la licenza per suonare nello stato di New York e il suo pubblico era composto dalla sua famiglia – la moglie Nellie e i figli Toot e Barbara. In questo stato di “prigionia musicale” Monk trascorreva ascoltando in radio i suoi colleghi ed amici che suonavano e la sua depressione aumentava.

L’occasione per l’incontro avvenne nel 1954 quando Pannonica decise di concludere la sua ricerca e tornarsene a casa. Monk era stato invitato a suonare a Parigi e la baronessa volò lì con la sua amica Mary Lou Williams, altra grande pianista jazz. L‘incontro fu folgorante e la baronessa non riuscì più a staccarsi da quell’uomo e dal suo mondo sino a diventarne una compagna fedele, un’accompagnatrice ufficiale, l’angelo custode. “ Avevo bisogno di un interprete per capire quello che diceva, io non conoscevo l’inglese di Thelonius ma era il più bell’uomo che avessi mai visto. Era un uomo molto grande, ma la sua presenza era ancora più grande. Ogni volta che entrava in una stanza la dominava.”.
Basta guardare qualche foto di Pannonica e Monk insieme. Lo sguardo della baronessa è adorante, quasi mistico, non sottomesso ma di estrema vicinanza e comprensione. Del resto Monk, già a quei tempi, dava segni di estrema difficoltà socio ambientale al punto tale da non poter essere lasciato solo. E così fu: Pannonica si trasferì a New York definitivamente (la sua famiglia la diseredò) e prese casa in una suite del Stanhope che divenne un cenacolo ed un rifugio per tutti i grandi della musica jazz. La sua casa era frequentata da Art Blakey, Sonny Clark, Kenny Drew, Horace Silver, Kenny Dorham, Charles Mingus e Charlie Parker. E fu nella suite della baronessa che Parker, ormai completamente debilitato dall’eroina e dall’alcool, trovò la morte, mentre guardava un programma televisivo il 12 marzo 1955.
La dedizione di Pannonica fu totale. I musicisti giravano con la Bentley di Pannonica. I locali, alcune volte, avevano strumenti non soddisfacenti e lei ne acquistava di nuovi. E Monk? Una sera, mentre giravano in macchina, Pannonica e Thelonius furono fermati dalla polizia. Nella macchina c’erano diversi grammi di marijuana che Monk usava abitualmente. In pochi istanti la baronessa razionalizzò la situazione: se avessero arrestato il pianista per lui sarebbe stata la fine. Disse che era tutta roba sua, rischiando una condanna a 10 anni, l’espulsione dagli stati uniti e la perdita della potestà sui figli che aveva avuto dal precedente matrimonio. Fu condannata a 3 anni poi cancellati per un vizio nella perquisizione dell’auto: i poliziotti l’avevano fatta senza chiedere il consenso della proprietaria. Che ci sia stato amore tra Pannonica e Monk è una dato certo.

Negli ultimi anni della sua vita, Monk, ormai in preda alla schizzofrenia fu accudito ed ospitato, con la sua famiglia, a casa della baronessa e nel 1982, al funerale del pianista c’erano due vedove che piangevano e ricevevano le condoglianze del mondo intero. Pannonica Rotshield è passata alla storia come Nica, il suo nomignolo attraverso le tante composizioni che le sono state dedicate: Gigi Gryece – Nica’s Tempo; Sonny Clark – Nica; Horace Silver – nica’s Dream; Kenny Dorham – Tonica; Kenny Drew – Blues for Nica, Freddie Redd – Nica Steps” Barry Harris – Inca; Tommi Flanagan – Telonica e Monk- Pannonica. La BBC ha prodotto un documentario su di lei, nel 2009. Nel film BIRD di Clint Eastwood, sulla vita di Charlie Parker, il suo personaggio è stato interpretato da Diane Salinger. Nica è deceduta nel 1988, all’età di 75 anni, accudita da figli e pronipoti, non rimpiangendo nulla.

Buona musica. 
Vincenzo Altini



 


03/09/13

JURASSIC 5



Quando si combinano 4 mc's talentuosi e stilosi, con 2 dj's e beatmaker che sono dei veri e propri ricercatori d'oro e delle affilatissime macchine del funk, il risultato è sicuramente esplosivo.
Non a caso i Jurassic 5 (anche se in realtà sono 6), sono una perfetta miscela hip hop tra vecchia e nuova scuola a partire, non a caso, dal loro nome.
I beats sono impregnati di funk e groove riportati sapientemente ai giorni nostri, incalzati dalle tecniche dei 4 maestri di cerimonia, ai quali alternano anche momenti di vero e proprio stile old school.

La location è la California, ed è proprio nel 1993 che i sei si riuniscono sotto lo stesso nome.
Al microfono: Chali 2na, Akil, Zaakir e Mark 7even
Sui tecnici: Dj Nu-Mark e Cut Chemist.

Cominciamo proprio da questi ultimi due personaggi. Due nomi che sono una garanzia e che hanno un certo peso sia nel mondo della conoscenza musicale e del collezionismo di vinili, sia per quanto riguarda la tecnica. Avere alle spalle Nu-Mark e Cut Chemist sicuramente ti fa partire molto avvantaggiato e con una base bella solida. Entrambi vantano collaborazioni con artisti di spessore, e sono anche promotori di eventi  e progetti non indifferenti, come ad esempio "Freeze" di Cut Chemist creato in collaborazione con Dj Shadow.
Basta conoscere i samples utilizzati per i beats di questi 2 signori per capire che ci si trova davanti a dei drogati di rare grooves.
Mark 7even, Chali 2na, Akil e Zaakir calzano a pennello su questi beats, con parti molto "vecchia scuola", rappate da tutti e quattro gli mc's contemporaneamente, alternate ovviamente a rappate singole, sulle quali però spunta su tutti il vocione di Chali 2na dotato anche di una notevole tecnica.

La loro prima uscita discografica risale al 1995 con la pubblicazione di un singolo Unified Rebelution, passato quasi inosservato ma che con il tempo ha acquisito un certo valore, anche perchè si tratta di un pezzo notevole. Ma è con l'uscita nel 1997 di un EP intitolato proprio "Jurassic 5", al quale l'anno successivo sono state aggiunte delle tracce per stampare il loro primo disco dallo stesso titolo, che comincia il viaggio vero e proprio dei Jurassic 5.
Tracce come Jayou, Concrete Schoolyard o la strumentale Lesson 6: The Lecture, rispecchiano tutto quello detto precedentemente e mettono un marchio forte sullo stile dei Jurassic 5.

Marchio che si conferma con la loro seconda uscita discografica nel 2000: l'album "Quality Control", dove la title track è una vera e propria mina (della quale potrete gustarvi anche uno spassoso video), ma che in generale spruzza hip hop e funk da tutti i pori. Le tracce Twelve e The Influence sono giusto 2 esempi di quello che è l'album per intero.

Con l'assenso del pubblico più affezionato all' hip hop genuino anni 80 e 90, continuano la loro avventura discografica pubblicando nel 2002 l'album "Power In Numbers" che contiene quello che è diventato ormai un classico: What's Golden. Ma inutile dire che i Jurassici sono una garanzia e anche il resto del disco è bellissimo. Freedom, Thin Line, A Day At The Races sono tutti pezzi potenti. Anche le collaborazioni presenti su questo disco sono di spessore, basti pensare a Big Daddy Kane, Nelly Furtado, Kool Keith e JuJu dei Beatnuts in veste di produttore.

Nel 2003 pubblicano "5 Alive" una sorta di raccolta dei loro pezzi migliori e tra live, concerti e collaborazioni si fanno attendere sino al 2006 per una nuova uscita discografica. Il titolo è "Feedback".
Da evidenziare subito delle differenze con i lavori precedenti, specie nelle produzioni, quasi a presagire un allontanamento dal loro stile inconfondibile e dal loro forte marchio. Un cambiamento che forse non porta i risultati sperati, perchè di brani che spiccano tanto quanto quelli precedentemente evidenziati non ce ne sono. Il disco non è brutto, ma nemmeno notevole. Diciamo che purtroppo rispetto agli altri, passa un tantino inosservato.
Sta di fatto che l'anno successivo il gruppo si scioglie, evidentemente c'era l'esigenza di alcuni membri di pubblicare lavori singolarmente ed intraprendere scelte e carriere soliste.

A parte una reunion fatta recentemente per dei concerti in alcuni festival, i membri più "in vista" dei Jurassic 5 ossia Chali 2na, Cut Chemist e Dj Nu-Mark stanno lavorando sodo singolarmente e vi consiglio di andare a cercare le loro produzioni, che sicuramente per quanto sono prezisne meritano dei capitoli a parte.

Dj Danko.





29/07/13

JOHN LEGEND


L'incontro con The Roots deve aver fatto bene a John Legend. Negli album Once again ed Evolver, si sentiva puzza di sperimentazioni pop e sonorità modaiole, fatte con la consueta classe certo, ma il pericolo di cadere nelle mani del David Guetta di turno era a pochi passi. Invece, ?uestlove e soci l'hanno riportato alle radici con Wake Up!, tributo al periodo d'oro del soul con rivistazioni tutt'altro che scontate. L'aria buona respirata con la band deve essere piaciuta a John perché Who did that to you, dalla colonna sonora di Django, che in qualche modo preannuncia l'uscita del nuovo album, è un gran pezzo.

Facciamo un salto indietro nel tempo, quando John Stephens, questo è il suo vero nome, terminato il college a Philadelpia, si trasferisce a New York per suonare in alcuni locali notturni, dove vende personalmente i suoi demo al termine dei concerti. Il ragazzo piace, non solo al pubblico, ma anche a colleghi ben più affermati. La fama che lo precedeva era ottima, anche grazie alla collaborazione con Lauryn Hill in Everything is everything, ma diventa Leggenda quando Kanye West lo prende sotto la sua ala protettrice e gli cuce addosso il nome d'arte. Prima lo inserisce in Selfish, hit degli Slum Village, e poi nel suo album The college dropout, che vende oltre due milioni di copie. I due sono praticamente inseparabili - Legend accompagna Kanye West anche alla cerimonia dei Grammy - e il feeling della coppia fa pensare a tutti che il passaggio successivo sia proprio l'album di esordio di John Legend, che arriva nell'estate del 2004. In Get lifted, le idee sono di John, ma il suono, moderno e potente, è opera di Kanye. Il risultato è una bomba: è come se qualcuno avesse preso il soul degli anni '60 e '70, e lo avesse rimescolato in una macchina del tempo per trasportarlo ai giorni nostri. Un mix di classico e di fresco, di tradizione e di novità, che scala presto le classifiche Usa. John Legend dimostra di essere un ottimo autore, sia di ballad straordinarie come Ordinary people, sia di pezzi dal ritmo coinvolgente come Used to love you. In So high, sembra di entrare in una chiesa ad Harlem, mentre poco dopo ci si ritrova in un club con Snoop Dogg che lo affianca in I can change. Insomma, sono accontentati sia mamma e papà, appassionati dei classici della Motown, sia i figli che vogliono sculettare un po'. Get Lifted vende tre milioni di copie in tutto il mondo, è disco di platino negli Usa con quasi 2 milioni di copie e, nel 2006, vince il Grammy Award come miglior album R&B.

Il mondo di John Legend inizia a cambiare. Non deve più vendere personalmente i dischi al termine delle sue performance, anzi c'è la fila per acquistarli o per goderselo dal vivo, e scrive canzoni anche per altri artisti, tra i quali Alicia Keys. Ci sono grandi aspettative per il suo secondo album, che esce nell'ottobre del 2006. La fila di produttori di Once again è lunghissima: oltre al solito West, ci sono Will.i.am, Raphael Saadiq, Sa-Ra Creative partners. Tutto sembra perfetto, forse troppo. A partire dalla cover e dalle foto interne, che ci mostrano un John Legend tirato a lucido e alla moda. Anche i suoni hanno perso l'odore della strada. Ci sono degli ottimi pezzi come il singolo Save Room, che campiona la versione di Gabor Szabo di Stormy dei Classics IV, Pda We just don't care (la nuova Ordinary people), Each day gets better, ma la sensazione è quella di aver perso la freschezza che contraddistingueva il primo disco per lasciare spazio a un lavoro eccessivo di cesellatura. Lo si nota anche dal numero di copie vendute, che rispetto a Get lifted passa da tre a un milione.
Il tour che segue l'uscita del disco è entusiasmante e porta Legend in tutto il mondo, facendo apprezzare ancora di più le sue doti di intrattenitore, sia quando si esibisce con grande abilità al piano, sia quando si alza dalla sedia per far scatenare il pubblico. Il successo dei live probabilmente fa pensare che la strada presa sia quella giusta e l'album successivo, Evolver, che esce nel 2008, è una sorta di copia di Once again. Anche qui ci sono i produttori e le voci del momento (André 3000, Brandy, Pharrell, Estelle), ma più che di una evoluzione, si tratta di un passo falso all'indietro perché i momenti trascurabili dell'album sono maggiori di quelli felici (It's over).

Tutto finito? La nuova stella del soul ha già perso l'ispirazione?
Niente affatto. E il merito è di... Barack Obama. Per sostenere l'elezione dell'attuale presidente degli Usa, nel 2008, John Legend e i “leggendari” The Roots decidono di registrare un ep di cover di brani soul degli anni '60 e '70, legati dall'impegno civile. Il primo di questi è Wake up everybody di Harold Melvin & the Blue Notes. Al posto della voce di Teddy Pendergrass c'è quella di John Legend, accompagnato da Common e Melanie Fiona. Il progetto piace così tanto agli artisti coinvolti, che diventa un album vero e proprio, nel quale troviamo Hard times di Baby Huey & the Babysitters, Little ghetto boy di Donny Hathaway, Wholy Holy di Marvin Gaye, Hang on in there di Mike James Kirkland. C'è spazio anche per un salto nel reggae con Humanity di Prince Lincoln Thompson e per un inedito, Shine, scritto dallo stesso Legend. Sembra di essere tornati a Get Lifted, con John Legend di nuovo padrone della situazione, piuttosto che parte di un prodotto, e un suono volutamente grezzo, che riporta alle narici quell'odore forte che si respira solo nelle strade delle città in continuo fermento. E come è successo per Get lifted, anche qui i riconoscimenti non si fanno mancare: l'album è stato premiato ai Grammy Awards 2011 nella categoria Best R&B album e i brani Shine e Hang on in There, in esso contenuti, si sono aggiudicato la statuetta rispettivamente come Best R&B song e Best traditional R&B vocal performance.

Cosa ci aspetta per il futuro? Per ora godiamoci, Who did that to you, inserita da Quentin Tarantino nella colonna sonora di Django, scritta da Legend dopo aver saputo dell'imminente lavoro del regista. Voleva assolutamente esserci in quella colonna sonora e ci è riuscito. Sarà per il suono vintage del campionamento utilizzato, The Right to Love You dei Mighty Hannibal's, ma il pezzo sembra scritto proprio per affrontare il nemico guardandolo dritto negli occhi dopo aver percorso una strada polverosa.
Per il prossimo album, invece, dobbiamo solo aspettare qualche mese: il 3 settembre 2013 uscirà Love in the future: quale John Legend troveremo, quello di Dance the pain away con Benny Benassi o quello di Made to love, che il buon John ci fa ascoltare come assaggio del nuovo lavoro?
Ne riparliamo dopo l'estate.



12/03/13

DUKE ELLINGTON




Parlare di Edward Kennedy Ellington è come raccontare la storia della musica del 20°secolo condensandola in una parola perchè Ellington è la musica del secolo scorso. Per quel che mi riguarda si può semplicemente condensare l’intero discorso partendo da una parola di quattro lettere, semplice e veloce, comprensibile in ogni lingua perché Ellington è universalmente riconosciuto come the DUKE.

La sera del 29 aprile 1969 Duke Ellington compiva 70 anni ed era alla Casa Bianca per ricevere la Medaglia della Libertà, l’ennesimo riconoscimento per una carriera senza limiti e senza soste: la sera seguente avrebbe diretto la sua orchestra al Civic Center di Oklahoma City. Strada… sempre in strada. La sua casa era la strada da oltre mezzo secolo. Da dove trarre ispirazione se non dalla propria casa? Ellington iniziò a suonare il piano giovanissimo, in adolescenza era già un band leader riconosciuto e stimato nella natia Washington. Poi, nel 1922 si trasferì a New York, per suonare nel complesso di Wilbur Sweatman ed entrare a far parte della prima storica big band, la Snowden’s Novetly Orchestra, in uno dei più eleganti locali di Harlem.

Harlem. Il centro della musica, il cuore del suono del ghetto. Il cuore della musica pulsante nelle notti, pieno di vita, di suoni di voglia di emergere. Harlem, culla dello swing in cui i temi orchestrali che rientravano nelle sonorità definite “growl” e “jungle” erano apprezzati e ricercati dai bianchi. Il jungle, in particolare, era gradito dai bianchi che vedevano nella gente nera creature non sviluppate e semplici, quasi primitive e legate alla loro terra madre, l’Africa, con giungle e savane i cui suoni esotici il jungle riproduceva. Lo stesso stile di Ellington, legato alla compiacenza della clientela – di prevalenza white - del Cotton Club, non era emancipato e raffinato. Lasciamo perdere gli arricciamenti di naso all'ennesima manifestazione razzistica della civiltà americana e contestualizziamo il periodo. Siamo negli anni 20, subito dopo la prima guerra mondiale e prima della grande depressione (in realtà il periodo di crisi fece compiere grossi passi verso l'integrazione sociale tra bianchi e neri: la povertà colpiva indistintamente tutti) e la popolazione afroamericana, nella maggior parte del territorio statunitense, viveva in vecchie capanne in zone senz'acqua e senza luce. Le grandi città, poi, accentuavano il divario con la creazione di agglomerati ghetti. Occorreva fare molta strada in tutti i sensi e la musica era lo strumento più facile ed immediato da utilizzare.
La musica, secondo Ellington, era quello strumento che doveva far allontanare i pregiudizi ed unificare le popolazioni. Solo ballando allo stesso ritmo e amando gli stessi pezzi si potevano fare passi avanti. Cosa si poteva fare di meglio se non ascoltare il suono della vita e della gente? Imparare dalla “terra” quello che la gente ascolta. Imparare ad ascoltare la vita. Nella storia della musica americana i baluardi imprescindibili e determinati di ogni suono ed evoluzione musicale sono Blues e Swing. Il blues è il suono della vita, della sofferenza e della passione. Il blues è quella parte di musica che ti prende e ti stende e non ti fa rialzare o che ti fa dire: Dove cazzo sono stato sino ad ora? Il blues governa le passioni, i suoni, le emozioni. Il blues parla. Il blues grida. Il blues ride e stride e frigna. Lo swing, invece, è l’amore. E’ ciò che unisce e prende corpo. E’ quella parte della musica che permette a due strumenti di stare insieme e di parlarsi, di ascoltarsi, di dire di se dichiarando il proprio blues. Si può descrivere lo swing prendendo ad esempio il sentimento che nasce tra due persone, ciò che c’è prima di ogni parola, di ogni gesto. Ecco… si può dire che il bacio, la parola, sia il blues e che il sentimento, ciò che spinge verso l’altro, che spinge a baciare a dire a cercare, sia lo swing. Lo swing è ciò che unisce portando con se le parole, i gesti, le storie. In quest’ottica, parlare del più prolifico tra i musicisti americani diventa semplice ed immediato. Elemento centrale della sua vita e fonte d’ispirazione assoluta è la straordinaria capacità seduttiva che Edward Kennedy aveva. Seduceva con eleganza e con passione e per un personaggio eternamente sul palcoscenico appare come antitetico rispetto al gioco di distanze che si crea tra personaggio pubblico e spettatore. Ellington, in realtà, seduceva ed amava tutti allo stesso modo ed era affascinato dalle manie insolite dell’animo umano. Se due membri della sua prodigiosa orchestra litigavano o non andavano d’accordo, assegnava loro gli assolo uno dietro l’altro, costringendo il primo alla chiamata del secondo ed osservando quel che succedeva. Era il potere dello swing. L’orchestra di Ellington era riconoscibilissima dalla forza dell’insieme e dalla straordinaria comunicativa di ogni strumento. Gli arrangiamenti, le composizioni, ogni singola nota era studiata in propensione della resa orchestrale consentendo, al tempo stesso, ad ogni strumento di essere valorizzato nelle sue funzioni. Nella musica afro americana dei primi tempi il contrabbasso e il piano svolgevano, sino a quel momento, funzioni ritmiche dando spazio solistico ai fiati ed alle voci. Ellington stravolse questo concetto organizzativo e assegnò ad ogni strumento un valore individualistico che accresceva il portato costruttivo orchestrale. Fu l’ingresso di Jimmy Balton (contrabbasso), nel 1939, a consentire questa rivoluzione concettuale e il contrabbasso venne aggiunto alla lista di strumenti in grado di esprimersi in parti solistiche vere e proprie. Sino a quel momento il double bass svolgeva il compito di motore dell’orchestra e controllore dei tempi della batteria. Ogni strumento è importante come parte dell’insieme e ogni strumento è importante per la capacità espressiva che può dare. Il blues e lo swing. Questo concetto consentì ad Ellington di mantenete unita la sua orchestra per oltre trent’anni, cosa non facile se si pensa alla litigiosità, all’individualità, all’esigenza di valorizzazione personale che muove l’animo di singoli individui, siano essi musicisti o meno, a cui furono contrapposti swing e seduttività carismatica del band leader. Se ci soffermiamo a riflettere su queste dinamiche individualistiche ciò che risalta è la difficoltà teorica e comprovata di gestire un’orchestra per tanti anni. Difficoltà consistente nell’elemento caos che ciascun istinto disgregativo porta in un insieme. Ellington aveva a che fare con gente come Paul Gonslaves che dormiva sul palco e poi si svegliava per sparare profondissime e bellissime parti di blues; Johnny Hodges che tra una ballad e l’altra chiedeva soldi strofinando indice e pollice; Ray Nance strafatto al punto tale da non riuscire a trovare il bocchino. Come gestire tutto ciò e mantenere unita la band? Duke usava la forma, l’insieme teorico, per accogliere il caos, l’elemento disgregante, e la sua orchestra era salva. Il jazz, divenne, con Ellington, “libertà di parola musicale” e la musica che aveva fatto ballare generazioni di americani bianchi (swing) iniziò ad intingersi di espressività e passione (blues). Ogni strumento aveva la sua parte orchestrale e la sua parte solistica. Tutti i musicisti divennero, così, protagonisti del suono che producevano. Il matrimonio tra blues e swing era sancito. La musica di Ellington non invecchia mai, anche oggi a distanza di 40 anni dalla sua morte, perchè non smise mai di arricchirla. Mentre molti compositori americani copiavano la musica europea credendo che quella fosse il futuro, Ellington americanizzava il suo repertorio e il suo suono inventando nuovi modi per fare jazz. “Noi abbiamo la nostra musica. Non ho bisogno di studiare Stravinskij o Scriabin o Schonberg perché diventi più raffinata. Mi basta uscire di casa e guardarmi attorno e fare quello meglio quello che faccio già.”.

Avrete notato che non ci sono titoli discografici. Non è una disattenzione ma un atto voluto. Ho cercato di raccontarvi l’uomo e il personaggio, inserendolo nel contesto della musica e cercando di descrivere quello che ha rappresentato ed ancor oggi rappresenta. La musica di Ellington, del resto, fa parte del patrimonio culturale di ciascuno di noi e se ne trovano le radici in ogni cosa ascoltiamo. Il concetto è semplice: Ellington ha modificato profondamente il jazz e la musica nera andando oltre i pregiudizi ed inserendo nella bellezza della musica la bellezza delle passioni. L’invito di chi vi scrive è quello di ascoltare Ellington (tutto quello che vi viene a portata di mano) e di fare digging nella vostra mente considerando cosa sarebbe stato della musica se DUKE non ci fosse mai stato.

Buona musica.

Vincenzo Altini




16/01/13

HANNAH WILLIAMS & THE TASTEMAKERS - A Hill Of Feathers




C’era una volta una ragazza che in una delle sue prime uscite da cantante nei sobborghi di Londra, incontrò per caso Sharon Jones (si proprio lei!).  Dall’alto della sua posizione, dopo aver sentito cantare la ragazza, sorpresa dalla potenza e dal calore della sua voce; le disse semplicemente: «…you’re blessed!» che in inglese non significa solo “benedire” ma è un modo per ringraziare qualcuno dopo aver, in questo caso, goduto di una performance musicale emozionante.

Lei è Hannah Williams, londinese di nascita; fin da quando iniziò a camminare ha avuto a che fare con la musica, complice una famiglia intera di musicisti. L’episodio al quale mi riferivo pocanzi, risale a quando la Williams pubblicò il suo primo singolo, un 45 giri uscito sotto la Mondegreen Records, un’etichetta indipendente. Da allora venne sempre seguita da gente come Sharon Jones, Charles Bradley e Craig Charles che con il suo show su BBC radio le diede non poca visibilità.
La svolta per Lei arriva quando incontra Hillman Mondegreen, leader della band dei Tastemakers, che s’innamora letteralmente delle doti canore di Hannah Williams e la invita a diventare la voce leader della band. Talentuosi, puliti nelle esecuzioni, mai invadenti, i Tastemakers sono il supporto ideale per una voce profonda, calda e potente come quella della Williams.
Così iniziano varie produzioni e tour promozionali in giro per l’Inghilterra e non solo, partecipando a vari festival. Nel 2011 mandarono in delirio il pubblico del “Jazz Re:Found Festival” anticipando l’esibizione di Afrka Bambataa! Sharon Jones e Charles Bradley li hanno già definiti la “next big thing” della scena soul Europea tanto da volerli come gruppo di spalla per i loro ultimi tour inglesi.

La svolta avviene quando dopo aver inciso un vinile “home made” vengono contattati dalla Record Kicks, etichetta indipendente di Milano che gli propone un contratto per un disco. E così, nel giro di pochi mesi, nasce “A Hill of Feathers” album di debutto per Hannah Williams & The Tastemakers. Un concentrato di deep soul e deep funk come non se ne ascoltavano da anni.
Il deep funk, per definizione, è quel funk “sporco”, quello graffiante e se vogliamo più “pesante”… quello di Betty Davis e James Brown per intenderci. Mentre per deep soul s’intende il cosiddetto “Southern soul”, cioè quel soul che proveniva da Memphis, dalla Georgia e dal Mississippi. Alcuni nomi? Sam & Dave, Aretha Franklin, Al Green, Rufus Thomas, Otis Redding, Isaac Hayes, Willie Hutch e molti altri.
L’influenza dei nomi che vi ho appena elencato è chiarissima in questo disco, ed è un piacere scoprire come Hanna Williams & The Tastemakers hanno saputo attingere dai mostri sacri della black music per tirare fuori un lavoro come questo!

“A Hill of Feathers” si apre con Work It Out, primo singolo estratto, uscito il 10 settembre, ad anticipare l’uscita dell’album. Un pezzo che secondo chi vi scrive è una vera delizia per l’udito. Beat minimale per dare spazio alla profonda e tagliente voce di Hannah Williams, davvero una perla.
Si prosegue con Tell Me Something (Liberites), altro pezzo dal sapore soul che la dice lunga sulle doti canore della nostra Hannah, davvero un portento. Neanche il tempo di riprendersi, ci lanciamo in uno dei miei pezzi preferiti dell’album che è Do Whatever Makes You Feel Hot, brano dal sapore retrò che, come dice la stessa Hannah in questo pezzo, vi farà muovere i fianchi come se stesse ascoltando James Brown!
A seguire troviamo due pezzi: Don’t Tell Me e The Kitchen Strut che, per un attimo, vi trasporteranno nei 70’s in un’atmosfera stile “Soul Train” a ballare a ritmo di funk, magari a partecipare alla celebre “Line dance”!
Break, con Washed Up. Brano lento, malinconico, a tratti struggente… “deep” appunto. Anche in questo pezzo le contaminazioni della Stax Records e del southern soul sono inequivocabili, pezzo drammaticamente bello!
(When Are You Gonna) Say You're Mine, altro brano intenso, quasi blues, con Hannah Williams che si diverte a “giocare” con le sue corde vocali alternando acuti graffianti a dolci rientri con cambi improvvisi di tonalità, concludendo però con dolcezza.
Ci avviamo alla conclusione dell’album con Get It (Part 1) e I'm A Good Woman; due pezzi freschi dal sapore reaggae misto a funk. Anche qui le doti vocali della nostra Hannah non verranno risparmiate! Chiusura con Things To Come, brano strumentale tutto da gustare che da quasi l’idea di essere una sorta di tema conclusivo, ad un album che non deluderà sicuramente gli appassionati di soul e funk.

Un disco breve, che scivola via che è un piacere. Subito si riesce a percepire quel “senso del groove” che viene dall’anima, formatosi dopo anni di esperienze e ottime basi culturali e musicali.  Uno stile, quello di Hanna Williams paragonato da qualcuno a quello di Etta James o a quello di Betty Davis; con i Tastemakers che con loro sound pulito, lineare e cristallino rendono questo davvero un ottimo disco. Sound moderno, legatissimo però a quelle che sono le radici della musica soul e funk in tutte le sue sfaccettature. Assolutamente consigliato per chi ama questo genere di black music.
Insomma… se Sharon Jones “l’ha benedetta” un motivo ci sarà, no?
Buona Musica!

Yayo


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