19/05/10

THE JAZZ MESSENGERS



I Messaggeri dell'Hard Bop.

La musica è un punto fermo. Un punto fermo in evoluzione che si muove e sviluppa nel tempo e nello spazio e prende dalle esperienze, dalle situazioni, dalla vita di tutti i giorni, ispirazione. Con la musica, le emozioni, le storie diventano note. E queste note, che oscillano nel tempo, portano un suono che si riconosce e che, anche se frammentato, diventa un simbolo, una storia, a sua volta.

Un sassofonista che cambia strumento, lascia il sax e si dedica al piano, e un pianista che, ad un certo punto della sua vita, decide di dedicarsi alla batteria... un giorno s'incontrano e creano una formazione che è leggenda: i Jazz Messengers.
Non parleremo di Horace Silver e Art Blakey, i fondatori dei Messengers, nel 1955. Parleremo di quel sound pazzesco che 100 musicisti hanno creato e seguito nel corso di oltre 30 anni di storia.
100 musicisti: non una storia facile. E’ difficile dargli un’identità singola, di ensamble – ma... se mi fermo a “guardare” il loro sound ritrovo, facilmente, un'identità riconoscibilissima: sono i Jazz Messengers.
Nel corso dei primi anni di attività ogni formazione standard ha i suoi cambiamenti, le sue piccole trasformazioni, fatti di chi esce e chi entra. Nel jazz è normale, quasi necessario. Ma qui parliamo di una formazione che nasce con Art Blakey e Horace Silver, batteria e piano, per poi assumere, nel corso degli anni, nomi altisonanti che spaziano da Moobley a Shorter, da Monk a Jarret, da Griffin a Donaldson a McLean, da Morgan a Hubbard a Marsalis a Brown. E poi Fuller, Watson, Walton, Williams… solo alcuni. Solo alcuni nomi che sono storia del jazz. E tutto questo, nonostante la logica evoluzione, senza mai cambiare sound.

Agli inizi degli anni 40 i musicisti jazz erano concentrati sulla fuoriuscita dagli schemi dello swing così come dettato dall'esperienza di Coleman Hawkins ( Body Soul) ed esploravano armonie ben più avanzate con ritmi syncopati e complessi. Era il Be bop. L'epoca delle esplosioni incontrollate che liberavano completamente la capacità espressiva di formazioni in chiave di quartetto, quintetto e sestetto. Il Be bop è un movimento elitario, nero, che va oltre la formazione, i ruoli orchestrali a cui si era abituati con lo swing e le grandi orchestre che facevano ballare la gente sino a notte fonda in tempo di guerra. Mentre in Europa si viveva a stretto contatto con la seconda guerra mondiale, New York, con le truppe sui fronti europeo e giapponese, continuava il suo pulsare: era la comunità nera ad essere in maggior fermento, a produrre le più interessanti espressioni artistiche. Le notti continuavano a vivere. I musicisti trascorrevano il tempo girando da un locale all’altro e, alla ricerca di un senso di libertà, esplodevano il proprio sentimento in musica. Nasceva un nuovo jazz intellettuale e libero e nero: il Be bop.

1955. C'è già stata la prima rivoluzione davisiana (Miles Davis: Birth of the cool) che ha portato l'orchestralità di natura classicistica all'interno del jazz. Il Be bop continua ad esistere ma serve un’evoluzione, serve continuare a far crescere il movimento togliendone i punti deboli.
Blakey e Silver fondano i Messengers. L’idea fu di Horace. Art l’accolse in pieno. Nacquero i Jazz Messengers: una formazione che rompeva gli indugi e, in forma di quintetto, prima, e sestetto, poi, con una sezione fiati dirompente su cui basare l’insieme scenico e strutturale della musica, avrebbe apportato un’evoluzione alle creazioni standard del boppismo puro. Il distacco non fu eccessivo. Non è la novità di Davis con il Cool Jazz di epoca contemporanea ma è una prosecuzione negli schemi naturali del Be Bop. Distacco, non secessione. Evoluzione, non rottura, negli schemi fluidi del boppismo. Nasce, se così si può dire, l’Hard Bop. Questa è una forzatura - lasciatemene la responsabilità – dovuta alla mia passione per i Messengers. In realtà i primi sintomi di Hard Bop li troviamo sul finire degli anni ’40, con i sestetti newyorkesi che giravano da un locale all’altro creando giochi di suoni su armoniche blues, con fiati e pianoforte. Il distacco dal Be bop era certificato dalla ricreazione dei temi orchestrali, dal, non eccessivo, inscatolamento dei soli… Hard: è duro, pesante. Hard: il Bop.
E’ con i Messengers che si conia il termine Hard Bop. Hard Bop è jazz derivato dal Be Bop, arricchito di sonorità ed elementi afro. È musica dura, aspra. Com’è dura ed aspra la vita in Africa, la terra madre dei suoni. I Messenger e la loro missione, appunto.
E, quindi, lo schema dell’Hard Bop è semplice e fondamentale: si può dire, senza mezze misure, che l’uso delle armoniche blues, tipiche dell’Hard Bop, influenzeranno e creeranno le basi per funk, soul e rhythm 'n' blues. L'Hard Bop sposta ancora oltre i confini delle improvvisazioni e delle armonizzazioni: cominciano a sentirsi gli effetti degli studi classici eseguiti anche da musicisti "neri".
Gli strumenti utilizzati nella sezione ritmica sono pianoforte, contrabbasso e batteria: sparisce quasi del tutto la chitarra (probabilmente per la mancata possibilità di essere usata in forma "percussiva" ma anche per la difficoltà dell'unirsi al pianoforte) e nelle sezioni fiati non mancano mai tromba-flicorno, sax contralto o tenore, integrati, eventualmente, da sax soprano, trombone, flauto.
Questo è Hard Bop. Questa è musica, ragazzi. Questa è la nascita di tutto ciò che ascoltiamo oggi. Con i Messengers, i messaggeri del sound.
Del resto è semplice leggere tra le righe di questo concetto e comprendere, com’è doveroso, che un musicista, come ogni artista, porta nella sua espressione artistica la propria esperienza.
I Messengers sono una nave scuola dirompente e formidabile e gli oltre 100 musicisti che vi hanno gravitato attorno li ritroviamo protagonisti di carriere che vanno oltre il jazz. Donaldson, Green. Hubbard e Miles Davis, i primi anni della sua esperienza musicale...
I Jazz Messengers: nave scuola e certificato di garanzia.

È un’impresa titanica raccogliere tutti i dischi dei Messengers anche perché imprevedibili e innumerevoli sono le metamorfosi che ne accompagnano l’evoluzione musicale.
Sino al 1959, primo periodo in cui l’estro compositivo e direttivo della coppia Blakey – Silver aveva già prodotto i suoi effetti, arrivando, anche all’abbandono da parte di Horace dell’ensamble – Silver esplorerà i territori musicali latineggianti mentre i Messengers continueranno la loro ricerca nelle sonorità africane…- , ed all’ingresso in formazione di Bobby Timmons – forse il miglior pianista in orbita Messengers – la formazione produce, grazie all’apporto di Morgan e Moobley, autentici capolavori. Su tutti: l’album Moanin’ del 1958.
In quest’album la formazione prevede, oltre a Art Blakey (batteria),Benny Golson (sax tenore e direttore musicale), Lee Morgan (tromba), Bobby Timmons (pianoforte e Jimmy Merritt (contrabbasso). La title-tune, composta da Timmons, è diventata subito uno standard - splendida la versione di Mingus...- anche col brillante testo in stile gospel di Jon Hendricks, e segna la nascita del soul jazz.

In Moanin’ troviamo un Morgan, nel suo primo periodo con i Messengers, in splendida forma ed il suo solo fa da scuola per tutti i trombettisti che si cimentano con l’uso delle dinamiche strutturali dei soli nell’Hard Bop.

Rileggo un attimo quanto scritto sinora e penso a come il sound dei Messengers sia sempre stato ben strutturato. Moanin è un esempio. Nella registrazione del 1956, alla tromba troviamo Lee Morgan... successivamente, in molte registrazioni live, sino al 1963, troviamo che le esecuzioni sono eseguite da Freddie Hubbard ed hanno una notevolissima differenza. La tromba, nei soli hubbardiani, ha un tonalità più spinta ed acuta di quella di Morgan ed è come se ogni nota fosse un inizio di altro. L'esecuzione di Morgan, invece, è secca, decisa puntuale. E' come se il tempo si staccasse dal drumming di Blakey e si lasciasse guidare da un nuovo modo di eseguire il pezzo. No, il suono dei Messengers non è mai cambiato. E ogni musicista subentrato ha solo apportato delle piccole variazioni ad alcun brano senza mai modificarne la struttura.

Brillano anche Blues March, lunga feature per i tamburi dal suono afro di Art Blakey, composta da Golson, e Along Came Betty (ancora di Golson) che sarebbe divenuta una presenza regolare nei concerti dei Messengers.

Il periodo considerato di maggior interesse dei Messengers è quello che va dal 1959 al 1964. Sotto la guida di Wayne Shorter: esce Lee Morgan, alle prese non problemi di droga e di salute - rientrerà dopo il suo ritorno alla grande sulle scene del Jazz statunitense - ed entra Freddie Hubbard (prima dell’album Open Sesame, prodotto da Blue Note sulla falsa riga dell’esperienza di Hubbard nei Messengers), esce Timmons ed al suo posto entra Walton, con il rinforzo, al trombone, di Curtis Fuller. Qui il suono, grazie alle composizioni di Shorter si fa velatamente più acido ed aspro senza lasciare la matrice popolare soul di tipico stampo blakeyana. Siamo all’epoca della rincorsa funk… dei suoni acidi di Donaldson. L’equilibrio dinamico dei Messengers è salvo.
La conferma di ciò è negli album Like Someone In Love (1960), uscito a nome di Blakey, Meet You At The Jazz Corner Of The World (due volumi - 1960), Freedom Rider e Roots And Herbs (entrambi del 1961) ma con il secondo impreziosito da un gioiello compositivo ed esecutivo di Shorter. Poi il rarissimo Pisces (1964) - beato chi si ritrova il vinile… - con un brano in sestetto e Ping Pong. In questi album le dinamiche sono caratterizzate dalla direzione di Shorter e diventano più complesse affrontando, anche, polifonie di sestetto. Le frasi (si chiamono così, in gergo, le parti rimesse a ciascuno strumento) dei fiati pescano a piene mani dalle fonie delle tradizioni afro e la scrittura, contraria alle dinamiche del Be Bop (è qui il vero distacco dalla tradizione precedente) risulta essere collettiva, quasi tribale: in Mosaic si sentono echi esotici e latineggianti (Arabia, di Fuller e Mosaic di Walton), come se l’Hard Bop, preannunciando il futuro, diventasse un contenitore di musica a tutto piano senza snaturare la sua candida verve puramente black.

I Messengers sono l'esempio più tipico della grande musica afro americana: un contenitore di suoni e di gesti che spaziano elevando ogni attimo a purezza assoluta. Sono suoni caldi, ritmiche profonde e devastanti, ricerche e sperimentazioni. C'è forza, passione, dolore e rabbia e colore. Insomma, tutto quello che può essere frutto della cultura afro americana.
Questo assunto continua a rivelarsi ottimo nella sua composizione oltre il periodo analizzato. Le produzioni dei Messengers non saranno più così innovative – Shorter passerà al Jazz Modale ed al Jazz Rock, con Davis, ed abbandonerà i Messengers. Le sonorità degli anni seguenti, sempre esplosive, sempre grintose, accompagnate da una ritmica da sballo con una sezione fiati di primordine, provvederanno a mantenere l'ottica Hard Bop osservando distrattamente prima il free e poi il Jazz Rock, senza mai ricorrere a strumentazioni elettroniche.
Non sarà, a mio modo di vedere, la stessa cosa degli anni shorteriani, ma, la continuatività della musica dei Messengers la ritroviamo nella musica che hanno prodotto, poi, i singoli musicisti una volta usciti dall'ensamble.
Esempi come Morgan e Hubbard e Griffin e Donaldson e Jarret non sono altro che continuatività del lavoro dei Messengers.

Buona musica.


Vincenzo Altini






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