03/03/12

BILL EVANS



«…Along with Bassist wunderkind Scott LaFaro and drummer Paul Motian, Evans perfected his democratic vision of trio cooperation, where all members performed with perfect empathy and telepathy…»

Samuel Chell – All About Jazz


Quella che sto per raccontarvi è una storia di jazz… come spesso accade molti jazzisti (almeno negli anni passati) vivevano delle vite difficili, segnate da problemi famigliari, uso di stupefacenti e perdite importanti. Uno di questi è William John "Bill" Evans. Un uomo introverso, timido, silenzioso, poco adatto al duro e crudele mondo del business discografico. Ma allo stesso tempo uno di quegli artisti che hanno rivoluzionato (letteralmente) il panorama jazzistico degli anni 60-70.

Fin da bambino Bill Evans è stato a contatto con la musica. A sei anni imparò a suonare il violino e in seguito il flauto e, seguendo le lezioni del fratello Harry che invece suonava il piano, iniziò, quasi per gioco, a riprodurre tutte quelle sonorità, quei virtuosismi che aveva sperimentato con altri strumenti. E iniziò a farlo in modo divino con un dinamismo e una delicatezza unica che lo accompagnarono poi per tutta la sua carriera.

La sua attività inizia nei primi anni 50 quando partecipa a diverse jam e serate con vari “bopers”. Si interruppe poi nel triennio 51-54 per via degli obblighi militari. Nel 1956 incontra il pianista George Russell e di lì a poco sarebbe uscito il suo primo lavoro ufficiale “New Jazz Conceptions”. Un titolo che spiega già quello che è l’album e ciò che ne seguirà. Bill è uno di quelli che lascerà il segno e la sua concezione del jazz diventerà nel corso degli anni sempre più un riferimento per tutti i pianisti del mondo.

Nel 1959 arriva la consacrazione assoluta. Il 2 Marzo 1959 viene convocato alla corte di Miles Davis per “la stesura della Bibbia del Jazz” ovvero “Kind Of Blue”; uno degli album più importanti nella storia della musica, non solo jazz. Unico bianco a partecipare all’album oltre a Jimmy Cobb, quasi senza accorgersene Evans si trovò al fianco di colossi come Miles Davis, John Coltrane e Julian ”Cannonball” Adderley. Ed era tra loro quando Miles per la prima volta gli consegnò gli spartiti, mai visti e provati prima e si iniziò a suonare, dando sfogo al proprio estro nel modo più totale. Ne venne fuori quell’opera monumentale, intoccabile e divina che è “Kind Of Blue” incisa da un gruppo che non poté più replicare con altri lavori visti i dissidi di troppe menti geniali che volevano sopraffare sulle altre.

Ma il nostro impressionista degli 88 tasti prevale per certi versi sugli altri regalandoci una nuova concezione del piano jazz: l'approccio “modale”. Stimolato dall’ambiente e dalla fiducia del “Sommo Saggio”, Bill iniziò una sorta di rivoluzione nel pianismo jazz introducendo nell'armonia, fino ad allora tonale; astrazioni tonali e modalizzazioni, impressionismi tipici di un pianismo classico che rimandano ai suoi studi di Debussy e Ravel, decontestualizzati dalla loro propria sede e reinseriti in un contesto nuovo.
Quell’album avrebbe cambiato la vita e la carriera di Bill Evans per sempre, ma nello stesso periodo iniziò a fare uso di stupefacenti, così come l’intera band di Miles Davis, per avere una mente libera da ogni razionale vincolo artistico.

Tra il 1956 e il 1961 pubblica ben 7 album tra cui “Portrait In Jazz” del 1959 e “Explorations” del 61. Album ben lontani dai residui suoni bop presenti nel suo primo lavoro. “Explorations” è una gemma. Inciso con Paul Motian al contrabbasso e Scott LaFaro alle percussioni, a formare il famoso “trio”, questo è uno di quei dischi che aprono la mente a una nuova dimensione. Raffinatezza e perfezione quasi assoluta, questo è ciò che mi viene da pensare ascoltando pezzi come Isreal, con Paul Motian alla batteria che ci dà quasi l’impressione di ascoltare un pezzo swing ma che accompagna dolcemente il piano di Bill, oppure la drammatica e stucchevole bellezza di pezzi come Haunted Heart. Un album dalle sonorità a volte contrastanti, si passa da suoni fragili e cristallini a frizzanti composizioni di piano, il tutto accompagnato dalla “delicata esuberanza” del contrabbasso di Scott LaFaro.

Il magico incantesimo avvenne domenica 25 giugno 1961 quando il Bill Evans Trio si esibì al Village Vanguard di New York. Il materiale registrato diede vita a due album, l’uno imprescindibile dall’altro, ovvero “Sunday at the Village Vanguard” e “Waltz for Debby” che è considerato il capolavoro assoluto di Bill Evans. Un album incantevole sotto ogni punto di vista. Sonorità pure di una raffinatezza e uno stile unico. Un’esibizione che rasenta la perfezione assoluta tanta era la sinergia del Trio in quella particolare serata.

Superfluo sarebbe parlarvi della tracklist vista l’immensità di questo capolavoro. Si inizia con deliziosi brani come My Foolish Heart passando per Waltz for Debby dedicata alla nipotina Debby Evans. Brano, quest’ultimo, ripreso nel corso degli anni da gente come Oscar Peterson, John McLaughlin, Al Jarreau e molti altri. Ma il trio sfoggia il meglio del proprio repertorio con My Romance: introduzione del piano di Evans e poi via con le delicate pennellate di Motian e le eleganti pizzicate di basso di LaFaro. Un pezzo profondo che segna secondo chi vi scrive il momento più alto in una serata, quella lì a New York, che sa tanto di storia del jazz.

L’entusiasmo per quella magica serata, però, venne subito smorzato, dieci giorni dopo, dalla tragica morte dell’”anarchico” (musicalmente parlando) del gruppo ovvero Scott LaFaro, in un incidente stradale. Il destino volle che quell’incantevole serata a New York fosse anche l’ultima del leggendario Trio.
Ultima serata del trio e vita di Bill Evans segnata per sempre. Estremamente debole nell’animo, disperato, riprende a drogarsi per evadere dal mondo reale che gli ha portato via uno dei suoi amici più cari.

Ma nonostante il suo dolore, la sua produzione discografica non si ferma. Evans continua a sfornare una perla dopo l’altra come “Moon Beams” e “Interplay” nel 1962 oppure “Conversation With Myself” che gli valse un grammy award nel 1963. Interessantissimo il progetto di quest’album “solo” unico nel suo genere, che diventa un classico dopo il primo ascolto. Profondo, introspettivo, di una raffinatezza unica, quest’album ci parla di Bill in tutta la sua grandezza. Classe sopraffina e qualità che solo un orecchio addestrato coglie facilmente, la complessità del vocabolario musicale utilizzato è tale che non ci si rende conto che a suonare c’è un solo uomo. Imperdibile!

Degno di nota è sicuramente “Time Remembered”, registrato dal vivo sempre nel 63. Scorrendo la track list di quest’album troviamo pezzi come Who Cares? scritto da George Gershwin, In a Sentimental Mood di Duke Ellington oppure In Your Own Sweet Way di Dave Brubeck. Brani famosi che Bill Evans riadatta, modella e plasma con la delicatezza e la maestria di un soffiatore di vetro di Murano!

Dopo l’ultima esibizione nella Grande Mela del 61, il Trio di Bill Evans non ebbe più una formazione stabile. Si alternarono a suonare con lui Paul Motian, Gary Peacock, Chuck Israels, Larry Bunker, Eddie Gomez, Marty Morell, Philly Joe Jones e molti altri.

Altra spettacolare performance Bill la regalò nel 1968 al Montreux Jazz Festival in trio con Eddie Gomez e Jack DeJohnette che valse il premio come Best Jazz Instrumental Album of The Year nel 1969.
Al 1964 risale invece la prima collaborazione con Stan Getz che portò all’album “Stan Getz & Bill Evans” rilasciato però solo nel 1970, analogamente la stessa coppia nel 1974 registrò “But Beautiful” accompagnati da Eddie Gomez al basso e Marty Morell alla batteria, ma l’album verrà rilasciato solo nel 1996.

“But Beautiful” è secondo Me un grandissimo lavoro, non so perché sottovalutato dalla critica. Un album live nel quale due geni dell’epoca dialogano in modo sorprendente, quasi suonassero insieme da chissà quanti anni. Tutta l’arroganza artistica di Stan Getz e la regia impeccabile di Bill Evans in una performance unica per chi ha avuto l’onore di esserci quella sera a Laren, in Olanda e a seguire poi, il 16 agosto, giorno del 44esimo compleanno di Bill, ad Antwerp,in Belgio.

Dopo “But Beautiful” inizia per Bill Evans un periodo decisamente più triste. Aveva già perso la sua seconda compagna Elaine nel 1971, morta suicida in una metropolitana di New York dopo aver appreso la sua intenzione di voler divorziare da lei, in seguito perse suo padre che aveva problemi di dipendenza dall’alcol. È del 1977 infatti “You Must Believe in Spring”, un album di drammatica bellezza e profonda introspezione. Album che tratta il tema della morte, ripreso in quasi tutte le tracce, caratterizzato però da molte contraddizioni. La prima la troviamo in copertina, nella quale vengono raffigurati alberi spogli avvolti dalla nebbia in un clima tipicamente autunnale, in contrasto con il titolo dell’album.

Ascoltandolo, nella vostra mente apparirà una fredda giornata autunnale di pioggia. Voi in casa, al caldo, dietro la finestra ad osservare il mondo tra i mille pensieri che passano per la vostra mente. Accompagnati magari da un cognac e un camino acceso. In sottofondo le note di questo disco vi scalderanno l’anima. Tanta malinconia che inizia però con un B Minor Waltz (For Ellaine), un Valzer in Si Minore, che ci riporta invece in un romanzo ottocentesco tanta è la fragranza e l’originalità di questo arrangiamento. Questo spiazza ancora di ascolta anche perché a seguire si torna allo stile malinconico “evansiano” tipico.

We Will Meet Again, dedicata al fratello Harry che pochi anni dopo morirà e altri pezzi come The Peacocks, Sometimes Ago e Suicide Is Painless, tratta dallo show tv “M*A*S*H”; completano quello che è uno dei migliori album di Bill Evans. Album che però sarà pubblicato solo nel 1980 e sarà uno degli album postumi.

Il nostro impressionista jazz, infatti, morirà pochi anni dopo, nel 1980 distrutto dalla droga e dal dolore per il fratello Harry, morto l’anno prima. E in questo modo, paradossalmente, le ombre che avvolgono “You Must Believe in Spring” hanno un preciso ed ulteriore significato. Quest’album assume le sembianze di un testamento, malinconico e intimo, profondo e personale. Il testamento di uno dei migliori musicisti di tutti i tempi

La carriera e la vita di Bill Evans sono stati sempre caratterizzati da eventi negativi, che ne hanno segnato irreparabilmente le sorti. Resta però il genio di un musicista che fin da bambino ha dedicato la sua vita allo studio e alla ricerca della perfezione musicale. A Bill è toccato il compito di continuare quella rivoluzione jazz che iniziarono John Coltrane ed Elvin Jones e ci è riuscito al meglio grazie al suo soprannaturale talento nell’ improvvisazione mai fuori luogo.

Bill aveva già scritto dentro di sé ciò che poi esprimeva in musica e grazie alle sue conoscenze di musica classica lo faceva in un modo che nessun altro prima di lui avrebbe potuto immaginare. Molti lo hanno paragonato a Debussy per le delicate e indimenticabili sensazioni che regalava e molti altri grandi pianisti dei nostri tempi si sono ispirati a lui, uno su tutti Michel Petrucciani, ma anche Keith Jarret, Herbie Hancock o Chick Corea.

Vorrei concludere la mia storia con un pensiero dello stesso Bill Evans, tratte dalle note originali del 1959, scritte sul LP di Kind Of Blue.


Improvisation in Jazz by Bill Evans:

«There is a Japanese visual art in which the artist is forced to be spontaneous. He must paint on a thin stretched parchment with a special brush and black water paint in such a way that an unnatural or interrupted stroke will destroy the line or break through the parchment. Erasures or changes are impossible. These artists must practice a particular discipline, that of allowing the idea to express itself in communication with their hands in such a direct way that deliberation cannot interfere.
The resulting pictures lack the complex composition and textures of ordinary painting, but it is said that those who see will find something captured that escapes explanation. This conviction that direct deed is the most meaningful reflection, I believe, has prompted the evolution of the extremely severe and unique disciplines of the jazz or improvising musician.
Group improvisation is a further challenge. Aside from the weighty technical problem of collective coherent thinking, there is the very human, even social need for sympathy from all members to bend for the common result. This most difficult problem, I think, is beautifully met and solved on this recording.
As the painter needs his framework of parchment, the improvising musical group needs its framework in time…»


Yayo


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