15/06/10

JOE BATAAN


Era la fine degli anni 60. New York City era il cuore pulsante della scena musicale afro americana e a Spanish Harlem, il quartiere portoricano per eccellenza, la musica di strada si condensava nelle forme più strane. A differenza dei loro padri, i giovani boriqua andavano ormai integrando la cultura latina delle origini con quella statunitense, generando così fenomeni artistici che di li a poco avrebbero infiammato il mondo intero: nasceva la cultura NuYorica.

Mentre il Latin jazz era una realtà ormai consolidata grazie a Dizzie Gillespie, Tito Puente e Cheo Feliciano -e nei club più underground la salsa iniziava a diffondere la sua onda- il boogaloo (che era andato tanto forte per tutto il decennio) si tramutava in una forma più adatte ai mercati di massa, che le case discografiche chiamarono Latin Soul. Mentre la salsa era decisamente un suono tropicale, il latin soul si avvaleva di idiomi più variegati ed esprimeva una sensibilità marcatamente più urbana. Interpretato per lo più in inglese, era una fusione di mambo e rhythm ‘n’ blues ispirata ai grandi eroi del soul afroamericano, perfettamente inquadrata nei canoni stilistici di quel grande movimento culturale che fu la blaxploitation. Era dunque la risposta boriqua all’emergente sound della Motown e della Stax del Dirty South, un suono poliedrico che vide tra i suoi più grandi protagonisti personaggi come Willie Colon (che presto diventerà uno dei giganti della salsa) e il “Latin Soul Brother” Joe Bataan.

Di padre afro americano e di madre filippina, il giovane Joe è cresciuto nei blocchi più spietati della Harlem ispanica, in una realtà difficile che in quegli anni era però estremamente stimolante per una folta schiera di musicisti, poeti, e artisti di vario genere. Questo vivace ragazzo era ben noto nel quartiere per essere non proprio un bravo ‘tio’, al punto che passò ben 5 anni in prigione: un’ esperienza che ne stimolò parecchio la creatività, al punto che appena libero (nel 1965) mise su una band di Boogaloo, e due anni dopo, nel ’67, pubblicò il primo album per la allora neonata label Fania (“Subway Joe”1968)

Non mancò molto perché, di pari passo con la crescita della Fania e di tutto il movimento salsero nuyorica, Bataan diventasse una leggenda. La sua musica raccontava una realtà, quella di Harlem, che proprio in quegli anni stava per degenerare in rivolta popolare, al suono di un funk aggressivo e devastante che rappresentava la rabbia dei ghetti e la loro costante tensione creativa. Ma c’era anche il soul, un elemento che nel ‘sonido’di Bataan diventava punto d’incontro e di interscambio tra i ritmi scatenati del caribe e le melodie del blues, ibridandosi in una musica tutta da ballare o, nel caso di canzoni come “Mujer Mia”, una dolcissima ballata romantica, in sensualissime celebrazioni dell’amore romantico in chiave psichedelica.

Quello del nostro è infatti sempre stato un soul psichedelico e se vogliamo tribale, che anche quando parla di cose romantiche mantiene viva l’essenza dell’acido, la distorsione organica della melodia… sulla sia di chi, come i vari Miles Davis e Lonnie Liston già percorreva da anni quelle strade così tortuose e accessibili a pochi. Era un soul particolare il suo, che si evolveva in parallelo a quello di altri grandi come Gill Scott Heron e Isaac Hayes (con i quali ha collaborato rispettivamente in brani oggi storici come ‘The Bottle’ e ‘ Shaft’).

Se Joe ha dato tanto alla Fania, non da meno è stato il suo apporto alla Salsoul, etichetta che ha co- fondato e reso figura emblematica nella storia della dance music e del funk di massa made in New York. Un merito che gli è costato, negli anni 80 e 90, la “pena” di essere paradossalmente finito nel dimenticatoio forse perché – esaurita la febbre della disco- salsoul non ha saputo (o voluto) interpretare li spirito dei tempi ed identificarsi nelle nuove formule “pseudo-elettroniche” che la facevano da padrone nei mercati internazionali. Venendo così oscurato da giornalisti a volte poco onesti che hanno solo e sempre osannato i vari Tito Puente, Celia Cruz, o Hector Lavoe…e non hanno cosi offerto ai grandi pubblici una visione completa e giusta di un movimento che ha invece visto in lui una vera e propria colonna portante.

Ma non c’è solo il passato: infatti, dopo anni di latitanza creativa, il grande ‘Latin Soul Brother’ è tornato alla ribalta con un eccezionale album, intitolato ‘Call My Name’ e pubblicato dalla giovane label spagnola Vampisoul nel 2005. Il suono è sempre lo stesso: romantico, danzereccio e a tratti acido, espressione coerente di uno stile sempreverde che per affermarsi dopo tanti anni di assenza ha dimostrato di non aver bisogno di far leva sui ricordi. Perché è uno stile classico, immortale, bello oggi come ieri…e domani! Tant’è che la stessa Vampisoul – artefice del suo rilancio- nel 2009 ha pubblicato ”King Of Latin Soul” affiancandogli l’eccellente band castigliana “Los Fulanos” in questo interessante progetto di rivisitazione dei suoi cavalli di battaglia (tra cui ‘Subway Joe’, ‘The Bottle’ e ‘Ordinary Guy’)

Chi già la conosce sa cosa vale – e cosa significa- questa musica. Chi invece non ha ancora avuto la fortuna di goderne, beh… farebbe bene a cercarla e consumarla con avidità, perché alla base di tutta la moderna dance music - Hip Hop compreso - c’è anche lui, uno dei grandi protagonisti della rivoluzione culturale Nuyorica negli anni della Blaxploitation. Joe Bataan, un eroe del sound latino ed una grande stella internazionale che brilla ancora oggi meritando un posto di riguardo tra i grandi maestri della musica negra.

Fabio Barocco

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