12/09/11

JAMIROQUAI


Quando si pensa ai Jamiroquai, li si identifica con Jason "Jay" Kay, la voce, il frontman, quello con i copricapo vistosi e la passione per la velocità. Certo, si circonda di musicisti che fanno la loro onesta parte, ma Jamiroquai è inequivocabilmente lui!
Una domanda mi è tornata spesso in mente su Jason Kay, soprattutto quando il suo suono, quel disco/electro/boogie, è diventato sterile e sempre uguale: ci è o ci fa? Della serie, è un grande talento che si addormenta sugli allori (e sui dollari) oppure è un furbone che ha beccato il filone giusto e raschia il fondo del barile fin quando si può?
A sciogliere il dubbio ci ha pensato l’ultimo disco, Rock dust light star, uscito nel novembre 2010, nel quale finalmente sembra aver recuperato la verve dei primi lavori. Del resto, l’aveva preannunciato nel 2007, quando dopo un concerto da guinness su un aereo in volo da Londra ad Atene, aveva comunicato alla Sony di voler rescindere il contratto e smettere di fare musica fino al ritrovamento dell’ispirazione.
Parola mantenuta: Rock dust light star, inciso per la Universal, è un bel disco!
Per carità, non ci sono grandissime innovazioni. Il classico richiamo a Stevie Wonder (Two completely different things), qualcosa dei Police nella parte reggaeggiante di Hey Floyd, schitarrate rock (nella title track e in Hurtin’), brani per i dancefloor (White knuckle ride, forse il più debole dell’album), dell'energico funk (She's a fast persuader), canzoni dal sapore jazzy (Smokes and mirrors) e ballad pop intense (Blue skies, Goodbye to my dancer). Ma la minestra non sembra riscaldata.
Tra i solchi si sente energia, come se fosse suonato dal vivo, c’è la maturità di chi è cresciuto e ha sostituito l’anarchia con la serenità e c’è una ricerca musicale, che spazia tra i vari generi cari a Jason Kay.
Forse manca la freschezza di Emergency on planet earth, il disco dell’esordio. Ma quello è un album irraggiungibile, pieno di sfumature, di incroci musicali e di mistero: chi era quel giovanotto con cappellone da indiano e tuta Adidas che si dimenava sul palco? E poi, quella voce, così simile allo Stevie degli esordi: un miracolo!
E deve essere stato un miracolo anche passare in poco tempo dal rifiuto ricevuto dai Brand New Heavies, gruppo di punta dell’acid jazz, dopo un’audizione per la ricerca del cantante, alla firma di un contratto con la Sony. Quel When you gonna learn, singolo stampato dalla piccola etichetta Acid Jazz, era irresistibile e non poteva passare inosservato ai volponi di una major.
Nell’album, uscito nel maggio del ’93, in piena riscoperta dei suoni dance della musica nera, spiccano alcuni brani - Too young to die, Music of the mind, Blow your mind, Emergency on planet earth - e i temi ecologisti e sociali.
Il secondo disco, The return of the Space Cowboy, uscito solo un anno dopo, è quello con i suoni più psichedelici. Sarà per l’uso frequente di droghe, ma quando canta JK sembra volare in una zona interplanetaria, dove tutto va bene, le vibrazioni sono positive, gli amici sono vicini e le inibizioni spariscono. E’ lo spazio ideale cantato in Space Cowboy, una suite lunga quasi sette minuti, che remixata da David Morales fa conoscere il "cowboy delle stelle" anche ai discotecari.
Il botto è nell’aria e arriva con il terzo album, Travelling without moving (1996), nel quale si ascoltano, uno dopo l’altro, Virtual insanity (accompagnato da un video pluripremiato), Cosmic girl, Use the force, Everyday e Alright: bastano questi brani da soli per giustificare l’acquisto di un disco, che vende oltre undici milioni di copie in tutta Europa.

La pioggia di soldi e di popolarità, rimpinguata dal successo del singolo Deeper underground, inserito nella colonna sonora di Godzilla, non fa bene alla band, abbandonata da uno dei creatori di quel suono ormai riconoscibile, il bassista Stuart Zender, per presunti dissapori con Jason Kay, sempre più annebbiato dalle droghe. Il risultato è il disco successivo, Synkronized (1999), uscito perché c’è un contratto e quindi deve uscire, ma che non porta niente di nuovo alle orecchie degli ascoltatori. Però il disco vende e, allora, perché non continuare così? Ed ecco A Funky Odyssey (2001) e Dynamite (2005). Due buoni dischi… se li avesse fatti un esordiente, ma da Jason Kay e la sua band ci si aspetta qualcosa di originale. E, invece, c’è sempre la solita ricetta: una dose massiccia di disco (Love phoolosophy nel primo, Dynamite nel secondo), una porzione abbondante di pop di qualità (You give me something, Seven days in sunny June), una spruzzata di rock (Feels just like it should) e piccole zollette di zucchero per i cuori teneri (Corner of the earth, Tallulah).

La chiusura del periodo più asettico della produzione dei Jamiroquai viene sancita dalla raccolta High times: singles 1992-2006, che contiene l’inedito Runaway, con la quale si chiude il rapporto contrattuale con la Sony.
E siamo, finalmente, ai giorni nostri con il gran ritorno sancito da Rock dust light star e dalla chicca Smile, non inclusa nell’album, disponibile in download gratuito sul suo sito.
Bentornato JK!




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