Oltre la perfezione ha sede la sublimazione.
Là, dove sembra impossibile arrivare, oltre il giardino, dove i sogni prendono forma e la mente si lascia andare ad uno stato di percezione altro. Fare proprio uno strumento, renderlo parte di sé e, nel contempo, farne l’estensione della propria anima e messaggero di sentimenti tanto profondi quanto veri, è opera dal più degno degli sciamani. E proprio come ispirato dalle più alte divinità, Grant Green ha raggiunto l’unicità del suono della chitarra nel jazz ed elevato la sua musica a livelli trascendentali.
“Io non ascolto molto i chitarristi, solo strumenti a fiato. Ero solito stare tutta la notte a copiare i solo di Charlie Parker nota per nota”. Bebop di Charlie Parker, uso delle pause alla Davis, fraseggio mai spinto al limite, condito semmai da spostamenti ritmici che fanno del suono sincopato che ne deriva il proprio omaggio alle ancestrali sonorità dell’Africa Occidentale: questo, e molto altro, è Grant Green.
A suo agio in ogni veste musicale, maestro indispensabile negli anni ’60 nei quartetti jazz accanto a batteria, sax ed organo, è con l’Hammond di Larry Young che trova il maggior feeling, dando vita ad un moderno sound jazz frutto dell’alchimia perfetta di due anime elevate.
Tra i pochi chitarristi in grado di percepire, rielaborare e riproporre il sound della Blue Note, la grande famiglia che lo accolse e che rese reale il sogno di vederlo registrare ed esibirsi accanto a mostri del calibro di Herbie Hancock, Lee Morgan ed Hank Mobley, trovò terreno fertile ovunque, seminando creatività e raccogliendone meraviglia.
Resosi testimone di opere d’arte altrui, onorando diversi artisti, primo fra tutti James Brown con la sua “Ain’t it funky now?”, mentore di chitarristi emergenti (siamo a metà degli anni Sessanta e George Benson deve ancora rendere edotto il mondo della propria eleganza stilistica) che in lui videro la speranza di rendere grande il proprio strumento in un genere di musica esigente e selettivo, arrivò, con la propria arte, a farsi testimone di quel nuovo movimento musical-cinematografico che era la blaxploitation, firmando la prima colonna sonora della Blue Note per il film “The Final Comedown” (1972), ove la musica diviene personaggio, e lo spettatore è vorticosamente trascinato nella storia di questo “uomo qualunque in un luogo qualunque”.
Da taluni considerato il “Padre dell’Acid Jazz”, campionato in modo diffuso da artisti di fama mondiale (A Tribe Called Quest e Public Enemy per citarne alcuni), Grant Green rimane un innovatore, a modo suo e nel suo genere, che ha ancora voce nell’immensa eredità musicale di cui noi possiamo godere, ricchezza che ha voluto donarci dopo essere partito, nel 1979 – all’età di 44 anni – per il l’ultimo, lungo viaggio verso l’estasi eterna.
Astrid Majorana
Grande Grant Green.
RispondiEliminaBell'articolo. Non ne conoscevo i riferimenti a Parker.
Ragazzi, siete speciali!!!