Pochi uomini sono in grado di far vibrare i corpi con le loro parole, uno di questi è Barry White.
Con la sua voce calda e pastosa ha riscaldato migliaia di piste da ballo e chissà quante case, nelle quali la musica del gigante buono si diffondeva. Soprattutto nelle camere da letto! Chi non è mai stato “ispirato” da Never, never gonna give you up o I’m gonna love you just a little more baby?
Tanto buono il grande Barry nella sua adolescenza non deve essere stato. A sedici anni, quando era ancora lo sconosciuto Barrence Eugene Carter, tentato dalla strada e dalle gang di Los Angeles, viene arrestato per il furto di pneumatici di una Cadillac. Uscito di prigione, giura di non farlo mai più e si dedica alla musica, diventando il cantante-pianista prima degli Upfronts e poi degli Atlantics and the Majestics. Ma a Barry piace creare i brani, più che cantarli. Inizia così a lavorare per varie etichette di Los Angeles e a scrivere le prime canzoni con il nome di Barry Lee.
Come succede spesso nella musica, c’è un incontro fondamentale alla base del grande passo, ed è quello con l'arrangiatore Gene Page e con la vocalist Glodean James con cui crea il terzetto delle Love Unlimited, composto dalle sorelle Glodean (che diventerà sua moglie) e Linda e da Diana Taylor. Il brano che le fa conoscere è Love’s theme (1973), nel quale Barry mette in pratica le lezioni di musica classica, apprese dalla collezione di dischi della madre, per fonderle con una disco music dagli arrangiamenti orchestrali sontuosi. Ai dj americani il brano piace così tanto da richiedere una versione strumentale, ancora più intensa, che viene pubblicata, con lo stesso titolo, nell’album della Love Unlimited Orchestra, il super gruppo di Barry White nel quale si sono avvicendati, tra gli altri, Ray Parker Jr, Johhny Guitar Watson e Lee Ritentour.
Ritorniamo al 1973. Barry consegna un nastro con tre sue canzoni, incise per un fantomatico vocalist maschile, al suo amico produttore Larry Nunes della 20th Century Records. “Con quella voce vuoi far cantare ad un altro le tue canzoni? Devi farlo tu!”, gli dice il boss e Barry, non troppo entusiasta di presentarsi in pubblico davanti a un microfono, decide di assecondarlo.
Esce l’album I’ve got so much to give, che avrebbe dovuto chiamarsi White Heat, e il primo singolo I’m gonna love you just a little more baby, trascinato da una base incalzante sulla quale il grande maestro prima sussurra le sue intenzioni in una lunga intro per poi esplodere con urlo liberatorio carico di passione. E’ una bomba che scala le classifiche di Bilboard, nelle quali resta per oltre quaranta settimane, e che, di fatto, dà il via alla disco music.
In dieci anni, fino al 1983, sfodera 16 album, una superproduzione costellata da singoli di successo: riempipista ballati ancora oggi nei dancefloor “più tradizionali” (You’re the first, the last, my everything; Let the music play; It’s ecstasy when you lay down next to me), lentoni dalla durata infinita (Playing your game baby; Never never gonna give you up); interpretazioni di grandi classici (It’s only love doing its thing; Just the way you are). Tutti con lo stesso marchio di fabbrica: arrangiamenti eleganti come lenzuola scure di seta, basi corpose con bassi che arrivano dritti allo stomaco, lunghe chiacchierate iniziali durante le quali Barry mormora qualcosa con la sua voce bassa e… tanto, tanto amore.
C’è sempre una unione da celebrare, una promessa di amore eterno o di una notte indimenticabile.
Probabilmente è stato il cantante che ha utilizzato più volte la parola “love” nei suoi titoli, o nei suoi brani, e se James Brown è stato “The Sex Machine”, Barry White può essere tranquillamente ricordato come “The love machine”. Anche perché, nella sua vita privata si è dato parecchio da fare: quattro figli dalla prima moglie, la sua fidanzatina di scuola, e altri quattro da Glodean James.
Dopo una lunga inusuale pausa, ritorna verso la fine degli anni Ottanta. La nuova musica nera è il rap o il new jack swing, ma Barry, al quale i rapper devono tanto, mantiene il suo stile e ritorna a cantare i suoi temi preferiti. Certo, non siamo ai livelli del suo momento d’oro e molti brani sono trascurabili, ma Sho’ you right e The longer we make love (nelle versioni con Chaka Khan e Lisa Stansfield) meritano di essere ricordate. Così come non possono passare inosservati il duetto “vietato ai minori” con Tina Turner (Living in your wildest dream), con i loro “Oh, baby!” iniziali che potrebbero far crollare anche i muri di una casa, e la sua partecipazione a The secret garden di Quincy Jones, sicuramente la sua interpretazione moderna più intensa che arricchisce di brividi un brano già fortemente sensuale.
I problemi di salute, enfatizzati dalla sua notevole mole, lo allontanano gradualmente dalla produzione musicale fino a quando, il 4 luglio 2003, Barry White muore per un blocco renale, forse sussurrando qualcosa come all’inizio della maggior parte dei suoi brani.
Mr. Soundelicious
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